Non distruggiamo la storia di Nanof.
L’intervista al fotografo Giacomo Saviozzi

Seconda puntata del viaggio nella struttura dell'ex ospedale psichiatrico di Volterra. Dopo 30 anni di completo abbandono a rischio l'opera di Oreste Fernando Nannetti, conosciuto anche come NOF4 o NANOF. Alle sue incisioni si sono interessati diversi artisti e le foto dei suoi graffiti hanno trovato posto nel Museo dell'Art Brut di Losanna.
San Lazzero è un piccolo borgo situato a poche centinaia di metri dalle mura di Volterra. Si arrampica sulle pendici di un colle sulla cui sommità sorgeva il vecchio ospedale psichiatrico. Lo cerco, con lo sguardo rivolto verso l'alto, ma senza successo, gli alberi sembrano averlo inghiottito, quasi volessero proteggerlo. Non ho bisogno di fare domande, la signora che mi viene incontro, sicuramente, è abituata a scene simili: subito mi indica come raggiungere i padiglioni dell'ex manicomio. Mi addentro nel boschetto e inaspettatamente scopro che la zona non è deserta: sul mio cammino trovo persone che corrono, altre passeggiano col proprio cane. Tutti mi salutano, ma con voce appena udibile, quasi avessero timore di rompere il silenzio che ci circonda.

Gli alberi si aprono e svelano alla vista i tre edifici storici, il Ferri, il Maragliano e lo Charcot. Lunghi corridoi ingombri di vecchi mobili ammassati, pavimenti ricoperti di calcinacci che scricchiolano ad ogni passo, stanzoni vuoti e illuminati solo a tratti dalla luce che filtra tra le inferriate delle alte finestre. L'atmosfera buia e polverosa mette ansia, devo confessare a me stesso di voler fuggire. "SOLITUDINE", "PAURA", "DEPRESSIONE", "RABBIA": altri hanno visitato questi luoghi prima di me e hanno lasciato queste parole scritte a grandi lettere sui muri. Sembrano volermi ricordare cosa è stato questo luogo: un ricovero per malati psichiatrici. Memore di racconti letti e documentari visti in passato, cerco di immaginare queste stanze di nuovo popolate: esseri umani sradicati dai propri luoghi e dai propri affetti, rinchiusi e isolati dal resto del mondo, nascosti alla vista, sottoposti anche a torture, perché matti, psicopatici e folli, o forse solo perché considerati tali. Storie di vite cancellate, le cui uniche memorie rimangono in cartelle cliniche segretate.

Esco dal Ferri, il più imponente dei tre edifici, e la tensione scende, placata dalla quiete che regna nell'ampio giardino. Due anziani signori chiacchierano seduti su una delle panchine di pietra. Mi raccontano che vengono spesso a passare i loro pomeriggi qui, cercando rifugio dai rumori della città. Come tutti i volterrani, sono legati a questo posto e si dicono dispiaciuti che il complesso sia stato abbandonato al suo destino di decadenza. Chiedo loro indicazioni su dove cercare il motivo che mi ha realmente spinto a intraprendere il mio viaggio a Volterra.

Focalizzo meglio lo sguardo e finalmente realizzo cosa ho di fronte: un vero e proprio libro, inciso nell'intonaco. Resto senza fiato, è un'opera immensa, lunga 180 metri per un'altezza media 160 centimetri. Qualcuno l'ha definita un passatempo di un povero pazzo, un modo come un altro che uno dei pazienti ha trovato per trascorrere le sue giornate nella struttura. Si chiamava Oreste Fernando Nannetti, conosciuto anche come NOF4 o NANOF. Nato nel 1927 a Roma, da Concetta Nannetti e padre ignoto, trascorse l'infanzia in un istituto di carità per poi passare in una struttura per minorati psichiatrici. Nel 1948 fu incolpato di oltraggio a pubblico ufficiale, ma venne prosciolto per infermità mentale. Nel 1958 lasciò l'ospedale Santa Maria della Pietà, per arrivare a Volterra, dove rimase rinchiuso per diversi anni, prima nel padiglione Ferri, il vecchio reparto giudiziario, poi nello Charcot. Impiegò dodici lunghi anni per incidere, usando solo la fibbia della sua divisa, questa immensa opera che a guardarla fa pensare più alla mano di un'artista che a quella di un malato e che restituisce un'immagine di NOF4 molto diversa da quella che avremmo potuto leggere sulla cartella clinica del suo alter ego. Quello che ci lascia sono pagine di disegni e poesie, realizzate da un artista che vuole comunicare, lasciare un messaggio in grado di rompere le mura della sua clausura. Nannetti pagina dopo pagina racconta non solo se stesso, ma anche la vita all'interno del manicomio, quando, ad esempio, disegna quello che lui chiama un grafico metrico mobile per descrivere la mortalità all'interno dell'ospedale: "10% per radiazioni magnetiche teletrasmesse 40% per malattie varie trasmesse o provocate 50% per odi e rancori personali provocati o trasmessi".

L'unità di stile, gli artifici retorici che utilizza e la sua poetica sono tali per cui, oggi, Nannetti continua a vivere recuperando parte della dignità che forse gli era stata tolta negli ospedali psichiatrici. Alla sua opera si sono interessati diversi artisti, anche di fama internazionale, da Mino Trafeli, a Ugo Nespolo, a Simone Cristicchi, tanto che oggi è annoverato tra gli incisori, quelli veri, al punto che le foto dei suoi graffiti hanno trovato posto nel Museo dell'Art Brut di Losanna. Convinto del valore artistico di NOF4 e della necessità di una valorizzazione della sua figura, è forse più degli altri, Giacomo Saviozzi, fotografo lucchese, che ha voluto dedicare al «Santo della cellula fotoelettrica», Nannetti Oreste Fernando, un dvd, «Deliri visivi» realizzato in collaborazione con il giornalista Marco Marsili. Lo abbiamo intervistato.


Quali sono i lavori che ha realizzato ispirandosi a NOF?

Ho realizzato due lavori sugli ex ospedali psichiatrici. Il primo è un libro, "L'interruttore nel buio", un reportage fotografico che copre tutta l'Italia, da Aversa a Torino, passando anche per Volterra. L'altro è un dvd, interamente dedicato a Nannetti. È stato presentato in anteprima a Volterra l'anno scorso, ma in realtà è ancora un work in progress e prenderà forma prossimamente, grazie anche alla collaborazione con il museo di Art Brut di Losanna. Si intitolerà «Nannettaicus Meccanicus Santo della cellula fotoelettrica» che non è altro poi che una citazione di ciò che ha scritto di sé sul muro

Come nasce il suo interesse per gli ospedali psichiatrici?

Sono lucchese di nascita, e a Lucca il manicomio rimaneva molto distante dalla città, sia fisicamente che psicologicamente, era un'entità abbastanza astratta, concretizzatisi solo grazie agli scritti di Mario Tobino, che ha lavorato al suo interno ma che ha avuto maggior fama come scrittore che come psichiatra. Quando mi sono trasferito a Volterra, ho fatto un po' come tutti i volterrani, ho vissuto il manicomio come un luogo per una passeggiata al fresco; ne sono rimasto "inorridito", in certi punti non è una vera e propria attrazione. Mi sono detto, questo potrebbe essere una storia da raccontare. Da qui nasce il libro «L'interruttore nel buio», in cui con le immagini, ho cercato di spiegare come si poteva vivere all'interno degli ospedali psichiatrici e ciò che ne è rimasto. Venendo a Volterra, ho conosciuto naturalmente, ancora prima del manicomio, Nannetti; mi sono subito interessato a lui, ho cercato di conoscerlo parlando con altri che prima di me l'avevano scoperto, Mino Trafeli per primo.

Genio o follia? Che idea si è fatto di Nannetti?

Da appassionato d'arte, ho pensato subito più all'opera di un artista che a un passatempo di un folle. Ho cercato di capire che cosa volesse comunicare su questo muro che per tanti, come per me è un vero e proprio libro, che ha un impianto: Nannetti tende a costruire delle pagine all'interno delle quali scrivere. Il graffito ha questa forma uniforme ed ha una particolarità: quando arriva in fondo alle pagine, va a capo invertendo le lettere, anziché da sinistra verso destra le lettere sono scritte da destra verso sinistra. Gioca non solo con la grafica, ma anche con le parole in forma poetica, perché «fischio fischietto ferroviere» o «moro spinaceo castano, alto 1,65 secco bocca stretta fratellastro», due modi con cui egli stesso utilizza per descriversi, sono delle costruzioni che difficilmente fanno pensare ad un analfabetismo.

Ci racconta un po' meglio come ha analizzato il personaggio nei suoi «deliri visivi»?

Nel dvd ho cercato di mettere in relazione Nannetti con quattro personaggi immaginari: una bambina, un poeta, un artista e poi una sorta di alter ego, il collegamento con la follia, l'ultimo ospite che torna all'interno del Ferri e pulisce l'interno e l'esterno del padiglione con ciò che trova, con i piedi, con uno specchietto. La bambina con la sua innocenza è quella che lega Nannetti e gli artisti in genere con la follia; il poeta perché la sua è una forma di poesia; l'artista perché d'arte si parla; e infine ahimè, o meglio ahi lui, il folle perché così è stato inquadrato, così ha trascorso gli anni della sua vita da internato. Ho provato a fare questo esperimento visivo, che io chiamo «deliri» perché cerco di accostarmi a quello che è il suo modo di vedere, di vivere quello spazio. Mi raccontavano che era una persona che stava in silenzio, non comunicava con nessuno e continuava tutto il giorno con la sua fibbia a incidere questo muro. C'è quella panchina, dove si sedevano sempre dei pazienti catatonici: si dice che addirittura continuasse a incidere nonostante le persone fossero sedute, girava intorno alle loro teste. Agiva con metodo insomma. Quando si fa una cosa del genere per anni, per 180 metri, consumando fibbie e tempo, al di là del fatto di averne forse anche troppo di tempo da consumare, per me si sta creando un'opera d'arte. Ha costruito un suo stile e un suo linguaggio specifici, il muro di Nannetti è a tutti gli effetti un'opera d'arte. Che poi la si collochi nella cosiddetta Art Brut, questo sta ai critici o a chi vuole dargli questa connotazione. Mi è capitato di leggere un libro di testo sulle incisioni del 900, in cui il critico pisano Nicola Miceli, gli ha dedicato quattro pagine come incisore del 900, l'ha riconosciuto a tutti gli effetti un artista, non da relegare nell'Art Brut.

Questa è un'immagine di Nannetti, che si è costruito basandosi sulla sua opera artistica. Ha avuto modo di parlare con qualcuno che lavorava all'interno della struttura e che ha conosciuto personalmente l'uomo Nannetti? Quanto si somigliano le due figure?

Mi sono fatto un'idea personale e mi sono immaginato una persona che vive reclusa sostanzialmente da sempre, anche da ragazzino, prima negli orfanotrofi e poi negli ospedali psichiatrici. Una persona che a mio avviso cerca un contatto con l'esterno. Questo lato del suo essere lo ritroviamo più volte sul muro ma anche in cartoline mai spedite. Attraverso quel muro tiene i contatti con la famiglia, vera o presunta che sia. Descrive i tratti somatici dei suoi parenti come se appartenessero a una tribù: tutti alti, mori, con il naso a Y, continua a chiedere e a mandare loro notizie, che paiono strane ma che sono vere, con un suo sistema telepatico. Una persona estremamente sola che però sentiva l'esigenza fortissima di comunicare con l'esterno.
Per quanto riguarda il Nannetti uomo, non conosciamo né le diagnosi, né le cure a cui era sottoposto, non sappiamo di preciso perché fosse stato rinchiuso lì. Sappiamo della condanna per oltraggio a pubblico ufficiale, che avrebbe dovuto scontare dopo due anni. Ma di anni a Volterra ne ha passati 12. Invece, su ciò che accadeva all'interno ho avuto modo di vedere un 8 mm senza tagli, girato da un infermiere di Volterra: scene a dir poco agghiaccianti, episodi di sodomia tra pazienti, ho visto persone nude, strette negli angoli tra la sporcizia, raccattare le cicche in terra e furmarle, uno sottoposto ad elettroshock che si spezza le costole per le convulsioni. Avevo già visto film e documentari, ma non erano niente in confronto a questo. Nannetti ha vissuto in un simile contesto e realizzare in queste condizioni un'opera come la sua, al di là del valore artistico, è storia. È un modo di comunicare: "Vivo qui, ma nonostante ciò esisto ancora. In un posto dove entri e non hai più nessun diritto, vi faccio sapere che ci sono, ma ve lo faccio sapere per sempre, questo muro deve cascare perché il mio grido sia cancellato."

E anche quando questo muro dovesse cadere, Nannetti continuerà a far sapere al mondo che esiste, grazie agli artisti che faranno conoscere la sua opera; lui l'aveva capito.

PROSSIME PRESENTAZIONI



Con piacere linko una bella intervista uscita rivista "Quaderni d'altri tempi".


http://www.quadernidaltritempi.eu/rivista/numero15/06visioni/q15_convvisioni01.htm

Il tuo libro esce, volutamente, a trent’anni dall’approvazione della Legge 180/1978, forse conosciuta meglio come “legge Basaglia” dal nome di Franco Basaglia,
lo psichiatra veneziano che la costruì e ne curò il varo. Basaglia si muoveva in una dimensione fortemente militante, frutto dello “spirito del tempo”, e sull’onda dei movimenti degli anni precedenti e della cosiddetta “antipsichiatria”.
Quanto ritieni sia rimasto, di quello “spirito” e di quella militanza?
Il mio lavoro in realtà è frutto di due anni di ricerche. All’inizio quando cominciai a pensare di realizzare un reportage sulla “follia” non sapevo nulla del trentennale. È stato un caso che mi ha avvicinato all’argomento. Più che il caso, come fare a dire ciò che è caso e ciò che non lo è? Da Lucca mi sono trasferito a Volterra circa 12 anni fa. La mia attuale compagna mi portò un giorno a fare una passeggiata per i vialetti che circondano i padiglioni dell’ex manicomio. Doveva essere un incontro romantico, quei vialetti sono stati ripresi dai volterrani per fare passeggiate, dagli amanti. Io disattesi le allora aspettative romantiche e incuriosito da quelle strutture fatiscenti non seppi resistere ed entrai. Ero completamente ignorante, nel senso che ignoravo ciò che in realtà fosse la follia e ciò che in Italia comportasse....... CONTINUA

http://www.quadernidaltritempi.eu/rivista/numero15/06visioni/q15_convvisioni01.htm

ISBN 88-89033-73-8, 128 pagine, 90 foto B/W, € 22

Un libro di

Giacomo Saviozzi

L'interruttore del buio
un reportage fotografico a trent'anni
dalla legge 180

sugli ex manicomi


Morgana Edizioni
ISBN 88-89033-73-8


Testi di:
Paolo Crepet, Cinzia Busi Thomson
Andrea Tagliasacchi, Gisella Trincas,

Silvano Agosti, Cristina Lasagni



A cura di:
Alessandra Borsetti Venier


Dalla penombra dei carteggi emerge la scritta “Nessuna cura” vergata in fretta, ma con una calligrafia corsiva quasi elegante. Come pesano queste due parole fredde, gravi e che non concedono speranza alcuna! Povera Lolita nel tuo nome proprio evidentemente non portavi il destino… Alle carte si sovrappongono altre carte, sempre più pesanti, quasi a soffocare l’anelito di speranza che si sprigionava dalle bocche impastate da un sonno sintetico...
Cinzia Busi Thompson


Nei vuoti delle tue immagini c’è, evidente, una traccia di mistero .
Il cosiddetto “dopo Basaglia” rischia di rivelare più la sua assenza che non la realizzazione dei suoi progetti.
Ma ciò che maggiormente conta è che il Manicomio rimanga fuorilegge e che qualche zona si riveli esemplare nel ridare dignità a una malattia che l’aveva completamente persa nel teorema assurdo: se sei in grado di produrre sei sano, se non sei in grado di produrre sei malato.
Silvano Agosti



La fotografia è un documento che ci obbliga a pensare: è stata fondamentale all'epoca della trasformazione che ha portato alla chiusura degli ospedali psichiatrici con la riforma del 1978. La fotografia è stata determinante, e grandi fotografi come Giovanni Berengo Gardin, Carla Cerati, Luciano D'Alessandro, Uliano Lucas, Ferdinando Scianna, Raymond Depardon, hanno “fissato” il dolore estremo che è quello dell'emarginazione e della negazione di qualsiasi diritto civile. La fotografia era un richiamo alla coscienza dei cittadini, e non tutte le coscienze erano ovviamente avvertite di ciò che accadeva dietro quelle mura; qualcuno forse immaginava e taceva: questa è una vecchia patologia dell'ipocrisia italiana. Quelle fotografie erano e sono fondamentali per noi che abbiamo lottato per questo cambiamento. Ritornare su quei luoghi per ricordare quel dolore, che non è svanito ma si è trasferito altrove, credo sia un'opera meritoria...
Paolo Crepet


Non ho mai smesso di guardare le immagini dell’orrore e della vergogna, e di farle guardare, perché ho timore che si possa dimenticare o che si smetta di denunciare o che non ci si accorga di tanti altri luoghi simili.
Giacomo Saviozzi, ha attraversato i manicomi vuoti, ma la sua sensibilità umana e artistica gli hanno fatto sentire l’eco del dolore “come se le urla dei malati echeggiassero ancora tra gli stanzoni fatiscenti”.
Raccontare quel dolore, rendere giustizia a quelle vite che in tanti hanno considerato di scarto...
Gisella Trincas



Gli ultimi giorni di Magliano il libro che Saviozzi ha fotografato e inserito tra le immagini dei fatiscenti padiglioni dei manicomi è lì a testimonianza dell’apparente stridore tra la psichiatria manicomiale di Tobino e i manicomi, spesso luoghi bui, d’isolamento sociale, culturale, affettivo, di “corrispondenze negate”.
Come un “interruttore del buio hanno spento l’uomo”, e sono stati una realtà triste e vergognosa del nostro paese.
Saviozzi riconosce al Professor Tobino quell’onestà intellettuale che lo colloca tra chi ha la passione per la cura, la dedizione, il sacrificio, l’attenzione e la vocazione di aiutare gli altri; nonché il desiderio di rendere più gradevole la vita ai malati...
Andrea Tagliasacchi





Per acquistare il libro è sufficiente contattare l'editore
Morgana Edizioni e indicare titolo, autore,
codice ISBN 88-89033-73-8
e quantità
oppure direttamente l'autore tramite email: giacomosaviozzi@libero.it



























La trasmissione radiofonica di Rai Radio 1 ha pubblicato un inchiesta sulle carceri di Milvia Spadi con un intervento di Giacomo Saviozzi sul carcere di Veneri a Pescia

CELLE VUOTE

Carceri sovraffollate e carceri vuote. In Italia esistono circa 50 strutture di detenzione non utilizzate: in alcune c'è il personale ma non i carcerati, altre sono occupate dagli sfrattati, altre ancora usate come magazzini, fino al paradosso del carcere di Gela, costruito nel 59 e mai entrato in funzione. Entro dieci giorni il consiglio dei ministri esaminerà il piano per l'emergenza carceri

http://www.radio.rai.it/radio1/inviatospeciale/view.cfm?Q_DATA=2009-09-05&Q_TIP_ID=0


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